martedì 11 dicembre 2012

C'ERA UNA VOLTA LA CIVILTÀ EUROPEA [1 di 4]

Il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, recentemente, ha voluto rimarcare la necessità di proseguire senza tentennamenti con le cosiddette politiche di rigore e austerità nell’Eurozona, dato che alcuni Paesi «hanno vissuto in un mondo di favola, sottostimando gli squilibri» di deficit e debito pubblico, oramai divenuti “insostenibili”. Insomma: la BCE «farà tutto il necessario per preservare l’euro» (1), solo nella prospettiva di uno stabile contenimento della spesa pubblica.

Ci sono (almeno) due punti di estremo interesse in queste dichiarazioni di Draghi.
Innanzi tutto, vi è una esplicita ammissione di quanto sia essenziale l’intervento operativo della Banca Centrale per la tenuta della moneta, tenendo bene a mente l’anomalia della sussistenza e persistenza di una moneta unica, in assenza di un unico Stato (ma su questo ritorneremo più avanti).

Non meno importante, però, è l’impatto dogmatico della lettura (parziale) che si continua a dare a questa fase storica: deficit di spesa corrente e debito pubblico sarebbero un male da evitare sempre e comunque e rappresenterebbero, senz’altro, la causa prima di questa crisi economica, apparentemente, senza rapide e indolori vie d’uscita.

E più ancora del principio ― che pure ci sembra ampiamente discutibile, a dire il vero ― è l’applicazione di questo dogma della condanna indiscriminata della spesa pubblica che ci sembra doveroso analizzare: contenimento perenne delle voci di spesa del bilancio pubblico e, conseguentemente, revisione e ridimensionamento degli stessi concetti di Stato sociale e di servizio pubblico universale, oltre che dell’intervento pubblico diretto in economia. Dunque, in sostanza: Stato leggero e primato economico del privato e del mercato; una sorta di uscita “da destra” dalla crisi, se vogliamo dare un minimo di connotazione politica a scelte economiche che sono tutt’altro che neutre e oggettive. Uno slittamento a destra che, però, non va banalmente interpretato come convergenza continentale o mondiale verso un comune sentire, che si traduce in risultati elettorali che premiano, democraticamente, quei progetti politici che perseguono una certa idea di società (più individualista e meno egalitaria) a scapito di un’altra, fondata su opposti valori. Vi è qualcosa di profondamente diverso e di nuovo nella vulgata della fine delle favole che sta accompagnando i progetti di riassetto economico delle nostre società, vessate da questa imponente crisi del modello economico. Vi è, innanzi tutto (e alquanto paradossalmente), il ribaltamento dei fattori di crisi in valori positivi. L’occultamento delle responsabilità che il modello economico e i suoi attori privati hanno avuto nel generare questa crisi e, anzi, sic et simpliciter un sostanzioso rilancio del medesimo modello economico senza significativi correttivi di sorta, come ‘ovvia’ soluzione della crisi che esso stesso ha determinato e prodotto.

La cifra distintiva di quella che potremmo ben definire come una vera e propria restaurazione capitalistica su larga scala, ancora una volta, è espressa magistralmente da Luciano Gallino, nel suo recente “La lotta di classe dopo la lotta di classe” (testo di cui si raccomanda vivamente la lettura).

In estrema sintesi, secondo il sociologo torinese:
«La caratteristica saliente della lotta di classe nella nostra epoca è questa: la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i vincitori ― termine molto apprezzato da chi ritiene che l’umanità debba inevitabilmente dividersi in vincitori e perdenti ― sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. Questa classe dominante globale esiste in tutti i paesi del mondo, sia pure con differenti proporzioni e peso. Essa ha tra i suoi principali interessi quello di limitare o contrastare lo sviluppo di classi sociali ― quali la classe operaia e le classi medie ― che possano in qualche misura intaccare il suo potere di decidere che cosa convenga fare del capitale che controlla allo scopo di continuare ad accumularlo» (2).
In questo scenario, un ruolo decisivo nell’affermazione di quello che tende a configurarsi come un modello di pensiero unico elitario, che non riesce (ancora?) a incontrare forme diffuse e strutturate di opposizione di massa, è svolto chiaramente dai mezzi di comunicazione tradizionali e non. Televisioni, radio, giornali e persino i portali web dell’informazione mainstream, nell’apparente pluralismo dell’offerta, infatti, sul piano quantitativo veicolano massicce dosi del pensiero dominante, ammantandolo sovente col piglio autorevole del parere tecnico. Strategia di cui in Italia abbiamo avuto diretta esperienza nella fase di governo dell’attuale legislatura, soprattutto nel suo scorcio conclusivo, ma ― seppur in forme differenti ― in realtà tutto il periodo della cosiddetta Seconda Repubblica ne porta ancora i segni, ormai diventati vere e proprie cicatrici.

Se dunque, per dirla con lessico marxiano, «i pensieri della classe dominante sono in ogni epoca i pensieri dominanti» (3), è evidente che quando la classe dominante arriva a possedere strumenti di persuasione potenti e penetranti come mai ve n’erano stati in passato, gli spazi di manovra per provare a opporsi ai «pensieri del loro dominio» si fanno sempre più ristretti.

In prosieguo di discorso proveremo allora a comprendere al meglio a che punto è la crisi: come si è generata e come se ne esce, o, meglio, quali sono gli esiti delle prescrizioni dominanti che, per ora, si sono imposte come indiscutibili vie d’uscita. Cercheremo di capire se è vero e fino a che punto può essere verosimile l’idea che deficit di bilancio e debito pubblico continuamente crescente siano l’inevitabile conseguenza di un mondo che offre diritti e garanzie giuridiche ai lavoratori e avanzati sistemi di Welfare State (4) e, soprattutto, se un elevato stock di debito pubblico accumulato è un problema in sé, o se un qualche rischio di tenuta dei conti si presenta eventualmente, solo al ricorrere di determinate condizioni. Cercheremo insomma di capire se è vero che in Europa si è vissuti per decenni in “mondo di favola”, per usare le parole di Draghi, o se c’è qualcuno che racconta favole e che cerca di trasformare il sogno dell’integrazione europea in un incubo fatto di austerità e vessazioni delle classi lavoratrici. Un incubo del tutto insensato e controproducente, se l’ottica che si vuole perseguire è quella del benessere diffuso.

Sotto questo aspetto, la dolorosa vicenda della Grecia è paradigmatica. Un misto di errori tecnici, di egoismi (non solo) nazionalisti e di ottuso ideologismo ha fatto sì che, nel giro di un paio d’anni, i problemi del Paese si siano drammaticamente aggravati sia nei fondamentali economici, che nella carne viva dei cittadini greci, costretti a fare i conti con scenari di una miseria che l’Europa intera si illudeva di aver definitivamente relegato nella soffitta di un passato che mai più si sarebbe dovuto rivivere.

Vito Lops, sul quotidiano di confindustria (5), è chiarissimo, in proposito:
«Sono trascorsi più di due anni dal primo salvataggio (110 miliardi) della Grecia orchestrato dall’Eurozona. Da allora, complici previsioni ottimistiche e calcoli errati sul moltiplicatore fiscale (i danni sul Pil ipotizzati, derivanti dalle riforme di austerity, erano stimati con una leva dello 0,5 mentre in realtà il “moltiplicatore dei danni” è risultato superiore a 1) da parte delle autorità europee hanno complicato le cose».
E, più avanti, citando l’economista di AllianceBernstein, Darren Williams, offre alcuni numeri difficilmente equivocabili:
«Il tasso di disoccupazione sarebbe dovuto salire al 15,2% quest’anno e il debito del settore pubblico al 149,7% del Pil nel 2013. I fatti si sono dimostrati ben diversi. Secondo gli ultimi dati, l’economia greca si è contratta dell’11,7% nel 2010 e 2011, e le proiezioni ufficiali suggeriscono che calerà al 9,9% nel 2012 e 2013. Nonostante questo calo, le prime proiezioni per il mercato del lavoro si sono dimostrate troppo ottimistiche: il tasso di disoccupazione ha raggiunto oggi il 25,4% e continua a salire. Naturalmente questo programma ha avuto un forte impatto sia sull’economia che sulla popolazione. Ma ci sono stati dei risultati in termini di miglioramento della sostenibilità del debito? La risposta è negativa. Anziché raggiungere il 149,7% del Pil nel 2013, le ultime proiezioni vedono il debito governativo salire al 191,6% del Pil nel 2014. La natura autodistruttiva del programma greco porta importanti lezioni per gli altri Paesi in difficoltà dell’Eurozona».
Si poteva agire diversamente, dunque? Certo che si poteva! E si doveva farlo, se solo si considera che l’intero PIL della Grecia rappresenta una minuscola frazione ― circa il 2% (6) ― del PIL UE, ragion per cui a fronte di disagi minimi per tutti, un meccanismo di messa in comune dei debiti avrebbe immediatamente rappresentato al capitale speculativo la certezza che l’unione monetaria è anche politica e che non esistono dunque anelli deboli della catena, che possono saltare da un momento all’altro, innescando ulteriori processi depressivi, con conseguenze negative incalcolabili.

Anche qui, quindi, la transizione infinita (e dal carattere incerto) verso una Unione Europea che si costituisca a tutti gli effetti come Stato federale democratico, gioca senz’altro un ruolo decisivo negli sviluppi tutt’altro che risolutivi della vicenda greca.

Ma vi è un di più che non può essere ignorato. Già all’inizio di questo 2012, in Grecia, la percezione degli effetti devastanti delle pretese della cosiddetta troika (UE, FMI e BCE) era talmente forte e diffusa da scatenare violente reazioni di piazza, in presenza di un’ulteriore stretta nel senso dell’austerità. A fronte dei previsti licenziamenti e decurtazioni salariali nel settore pubblico, uniti a diffusi incrementi delle imposte dirette e indirette, il conseguente peggioramento delle condizioni economiche di ampie fasce della popolazione greca era oramai scontato, così come non bisognava avere capacità divinatorie per comprendere che se decine di migliaia di persone perdono il lavoro e altre centinaia (e centinaia) di migliaia di cittadini greci comunque avrebbero avuto minori risorse a disposizione da spendere, il risultato finale sarebbe stato il crollo della domanda interna. Una situazione, tra l’altro, non rimediabile, stante l’impossibilità ― la politica monetaria è di competenza esclusiva della BCE, nell’area euro ― di provare a controbilanciare le perdite interne, con una svalutazione competitiva. E se crolla la domanda interna e non si può nemmeno svalutare per tentare di rilanciare le esportazioni, la conseguenza è inevitabile: avvitamento recessivo e peggioramento ulteriore della situazione economica generale del Paese. Come è poi puntualmente avvenuto.

Ebbene di fronte alle prime perplessità che, anche qui da noi, questa strategia del tutto irragionevole cominciava a destare, i Boldrin di turno, da buoni campioni dell’ideologia dominante, spiegavano che, in sostanza, la Grecia non merita né fiducia, né sconti, né compassione, dato che:
«per più di un decennio ha vissuto su una spesa pubblica impazzita ed in continua crescita, prendendo a prestito da chiunque, per consumare e non per investire, mentre alterava i propri conti per ingannare i creditori» (8).
Gli effetti di queste politiche possono essere ben sintetizzati da queste righe scritte un paio di mesi fa da Ettore Livini:
«La Grecia dà l’ok alla vendita di cibi scaduti per provare a combattere la marea montante della povertà. Il ministero allo Sviluppo, secondo quanto riportano siti on line greci, ha approvato infatti una nuova legge che consentirà ai supermercati di lasciare sugli scaffali a prezzi super-scontati una serie di prodotti anche dopo la data entro cui devono essere “preferibilmente consumati”. Il cibo dovrà essere esposto separato da quello a prezzo pieno e il venditore risponderà del suo buon stato di conservazione. Il costo per il cliente dovrebbe secondo le stime essere pari a un terzo circa del normale. Non è consentito invece l’utilizzo di questa merce all’interno di ristoranti o negli alberghi. (…) La decisione del governo ellenico conferma la difficile situazione sociale della popolazione greca. La disoccupazione è salita a luglio al 25,1% contro il 17% di un anno fa con quella giovanile (tra i 15 e i 24 anni) arrivata allo stratosferico livello del 54,2%. Un greco su quattro, insomma, è senza lavoro e il 27% dei cittadini vive sotto la soglia della povertà secondo i dati Eurostat. È il frutto della politica di austerity degli ultimi quattro anni che ha portato a un calo del PIL del 22% e a una serie di manovre finanziarie pari a 63 miliardi di euro, pari più o meno al 33% del PIL. Come se l’Italia fosse stata costretta a digerire tagli di bilancio per 600 miliardi circa» (9).
Ma, evidentemente, il popolo greco, la Grecia stessa nella sua interezza ― «un paese dove, sino all’altro giorno, le figlie nubili dei dipendenti pubblici ottenevano uno stipendio dal governo e i barbieri vanno in pensione, pubblica e sussidiata, a 50 anni perché maneggiano sostanze pericolose!», come faceva notare sempre il nostro buon Boldrin ― tutto questo se lo merita. Così come, in base a questa logica, un trattamento del genere se lo meriterebbero anche tutti gli altri Paesi che si rifiutassero di fare i cosiddetti “compiti a casa”, espressione che il tecnico e sobrio Mario Monti ama ripetere spessissimo a beneficio della stampa di mezzo mondo (10).

E in tutto ciò la cosa più incredibile è quanto, proprio nell’anno in cui l’UE si può fregiare del premio Nobel per la pace (11), si continui a sottovalutare il rischio che una straordinaria opera di vessazione di larghe fasce di ceti popolari possa tradursi, nel medio periodo, non solo nel tanto temuto e vituperato populismo in chiave anti-europea, ma in un molto più temibile diffuso risveglio di un’ultra-nazionalismo di stampo dichiaratamente nazi-fascista.

Ciò di cui, purtroppo, proprio in Grecia vi è già traccia tangibile, alla luce dell’impressionante successo che un partito violento e pericoloso (12) come Alba Dorata ha avuto nelle ultime elezioni.

Dal sogno dell’Europa dei popoli che si federano in uno Stato del benessere, all’incubo dei fascismi di ritorno, il passo è fin troppo breve, dunque! Soprattutto, quando dall’obiettivo del benessere diffuso si passa a una sorta di logica perversamente punitiva di intere popolazioni, senza nemmeno soffermarsi a ragionare sulle effettive responsabilità di chi avrebbe commesso errori. Perché se c’è una fetta di popolazione che si è arricchita illecitamente a danno dell’economia pubblica, nel momento in cui si assume a fondamento base della politica economica il risanamento del bilancio dello Stato, o si individuano esattamente i responsabili del dissesto e si ripiana il disavanzo (quantomeno al netto degli interessi), rimettendo a posto il maltolto e addebitandolo solo a chi se n’è effettivamente appropriato, o si opera come si è scelto di fare in Grecia: si distrugge un’intera economia e, magari, si permette pure ai veri disonesti di farla franca, pur di non condividere tra tutti gli Stati membri il costo del risanamento, per intero o solo per quella quota che non si riesce a recuperare direttamente da chi ha sbagliato.

Giuseppe D'Elia

 per L'Indiependente.it  
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