martedì 6 dicembre 2011

LA CRISI ECONOMICA COME PRETESTO PER UNIRE PD E TERZO POLO /1

Una strategia suicida, 
vero e proprio trionfo del berlusconismo

Andrebbe ascoltato più e più volte, e con estrema attenzione, il discorso con cui Concita De Gregorio (1) mette a nudo la folle strategia di quella parte del gruppo dirigente del Partito Democratico, che ha come obiettivo dichiarato l’alleanza elettorale col cosiddetto Terzo Polo. Secondo la giornalista ― che dirigeva ancora l’Unità, all’epoca del colloquio in cui le venne espressamente prospettato quanto segue ― il piano esposto da questo importante dirigente del Pd è così sintetizzabile: perdere le regionali in Lazio, in modo tale da rafforzare la posizione di Fini (a cui si poteva ascrivere la candidatura, poi, risultata vincente), inducendolo così ad accelerare la definitiva rottura con Berlusconi, preludio alla nascita del nuovo soggetto politico centrista in collaborazione con Casini e della futura e vincente alleanza tra questo “Terzo Polo” e il Partito democratico. Ma il dettaglio più sgradevole della vicenda è la motivazione con cui questo personaggio argomentava a favore della sicura riuscita di un progetto che definire azzardato è dire poco: come far digerire alla sinistra del Pd l’accordo elettorale con gli ex alleati di Berlusconi e l’ulteriore slittamento verso destra del partito? Presto detto: sarà la crisi economica ad agevolare questo passaggio politico.

Già solo tutto questo dovrebbe essere sufficiente a permettere l’avvio di una seria riflessione su cosa sarà realmente il Pd del dopo Berlusconi. Gestire per un po’ la cosa pubblica insieme a lui (N.B. il governo Monti, senza i voti dei berlusconiani, di fatto, non ha una maggioranza parlamentare) e poi presentarsi alle elezioni in coalizione con i suoi alleati di sempre? Questo è il futuro? Questa è l’alternativa al berlusconismo?

Se, poi, a questo ‘sommo’ saggio di ‘alta’ strategia politica, andiamo a sommare le altre questioni che la De Gregorio tocca nel predetto intervento, lo scenario politico per gli anni a venire si fa decisamente cupo. Riassumendo in poche battute la ‘sagacia’ di quella parte della dirigenza del Pd che stiamo qui criticando, il quadro che ne viene fuori è grosso modo questo: i referendum? Inutile sostenerli. Non passeranno mai! Le proteste dei lettori? Irrilevanti, tanto poi quelli che protestano alla fine nemmeno ci vanno a votare! Le manifestazioni studentesche? Uno scialbo rituale stagionale: nulla di serio!

In definitiva, tutto quello che di politicamente rilevante c’è stato in Italia, dal punto di vista della partecipazione democratica ― dal No B-day del cosiddetto popolo viola, alla manifestazione delle donne (quella del “Se non ora, quando?”) ― per il Pd poteva anche non esserci. Anzi, fosse dipeso da questa oziosa dirigenza, probabilmente, nulla di tutto questo vi sarebbe mai stato: probabilità che diventa quasi certezza matematica, riguardo ai referendum.

Come il lettore più attento avrà senz’altro notato, abbiamo volutamente circoscritto questi spunti critici non al Partito democratico in quanto tale, ma a quella parte della sua dirigenza che si colloca su posizioni che sono in linea con quanto riportato dall’ex direttrice del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Nelle righe che seguono, dunque, una volta verificata la coerenza e la verosimiglianza dei profili critici fin qui evidenziati, si proverà a trarre le conseguenze logiche di una siffatta strategia e, soprattutto, si cercherà di mostrare le principali ragioni per le quali sarebbe auspicabile una inversione di rotta.

Prima di procedere, però, è doveroso un breve accenno alla situazione emergenziale che ha determinato le dimissioni da capo dell’esecutivo di Silvio Berlusconi (2) e la nascita del super-governo di tecnici, presieduto da Mario Monti. Un governo che, al momento, praticamente, ha la fiducia dell’intero Parlamento (3). Un esecutivo, che, insomma, è letteralmente di unità nazionale, se si considerano le ben note mire autonomiste di quella che oggi è l’unica forza di opposizione parlamentare: la Lega Nord.

Ora, nel rinviare l’analisi di merito sull’operato del nuovo esecutivo al momento in cui questo sarà delineato formalmente (e, soprattutto, a quando si saranno stabilmente dispiegati gli effetti dei provvedimenti varati), sul metodo qualcosa si può e si deve dire subito, con molta chiarezza.

Innanzi tutto vogliamo ben sperare che questa impressionante maggioranza che rasenta l’unanimità non venga usata per apportare modifiche alla Costituzione repubblicana: sarebbe davvero un grave vulnus democratico se il cosiddetto “parlamento dei nominati” ― quello che ha una composizione che è frutto di una legge elettorale che passerà alla storia con la definizione di “Porcata” affibbiatagli dal suo stesso relatore ― dovesse decidere, a fine legislatura, di sfruttare la situazione emergenziale per apportare dei cambiamenti alla Legge Fondamentale; cambiamenti che, una volta approvati con maggioranza dei due terzi, non sarebbe nemmeno possibile sottoporre a referendum confermativo. Se davvero è necessario apportare delle modifiche alla Costituzione della Repubblica ― e chi scrive non pensa che questo sia il momento storico per affrontare un discorso del genere ― o il processo si realizza in un parlamento in cui tutte le istanze politiche espresse dalla comunità nazionale hanno una propria rappresentanza, proporzionata al consenso registrato nelle urne; oppure se (come oggi) il parlamento è eletto con un sistema che sovrastima le maggioranze relative ed esclude le proposte politiche che non hanno ottenuto alle elezioni un consenso reputato sufficiente, la modifica deve essere approvata senza far ricorso a quella maggioranza qualificata che impedirebbe la richiesta di referendum confermativo, a fronte di un eventuale diffuso malcontento popolare su uno o più aspetti della riforma costituzionale. Questo ci sembra un aspetto tutt’altro che trascurabile e del tutto indipendente dalla questione economica che è alla base dell’emergenza da affrontare e risolvere in tempi stringenti. Di conseguenza, l’auspicio è che la modifica dell’art. 81 Cost. e la conseguente “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale” rappresentino un caso eccezionale (4) e non l’inizio di una vasta opera di riscrittura del patto costituente.

L’altra questione di metodo, poi, è invece squisitamente economica. Anche qui è bene essere molto chiari e netti: questa idea, veicolata ossessivamente dai grandi media, che c’è un unico modo per affrontare e risolvere il rischio economico che il nostro Paese deve affrontare a causa di una manovra speculativa senza precedenti, che ― a quanto pare ― è in grado di mettere in ginocchio la terza economia d’Europa e una delle economie più avanzate di tutto il pianeta, è semplicemente ridicola. Un processo di risanamento del bilancio pubblico, che sia anche in grado di garantire una crescita economica, può essere realizzato in diverse maniere. Se l’obiettivo è il risanamento e i vincoli comunitari (oltre che le contingenze economiche) ce lo impongono, nessuno può imporre invece la negazione di un margine di scelta politica, più o meno ampio, su tempi e modi di quest’opera di risanamento. In concreto: un Paese ricco, come è ricca l’Italia, può risanare il proprio bilancio non solo riducendo le spese, ma anche incrementando le entrate. Può farlo. Senza nemmeno aumentare le tasse, se solo si riuscisse a recuperare strutturalmente una quota rilevante di quegli almeno 250 miliardi di imponibile evaso annualmente dai contribuenti infedeli (5). Può farlo, inoltre, rimodulando il prelievo fiscale. Come? Andando ad agire, ad esempio, su quel 10% di cittadini che detengono quasi la metà della ricchezza del Paese (6). Può farlo, infine: aggredendo la rendita: non solo quella finanziaria, ma anche quella immobiliare, ovvero quei circa 1700 miliardi di euro di patrimonio di seconde, terze e ennesime case (7) che verosimilmente vanno periodicamente a incrementare gli accumuli patrimoniali di quel famoso 10% più ricco ed in cui, probabilmente, si va a concretizzare anche buona parte di quella quota annuale di imponibile evaso, che, evidentemente, non si trasforma in investimenti produttivi, stante la sostanziatale stagnazione che affligge l’Italia da ormai troppi anni.

Fatte queste dovute precisazioni, possiamo dunque addentrarci nel merito della dichiarata riflessione e verificare, quindi, “se”, “come” e “perché” la strategia, diciamo così, centrista, del Partito democratico è una strategia suicida e per quali motivi essa rappresenta, in realtà, un vero e proprio trionfo di quelle stesse logiche berlusconiane, che larga parte dell’elettorato effettivo e potenziale del Pd ha combattuto e osteggiato in questi anni.

Giuseppe D'Elia


«Ci conviene perdere?!?
Ma come ci conviene perdere?
In che senso?» 
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(1) http://www.youtube.com/watch?v=HhBfw1nATJE&t=5m09s

(2) http://www.youtube.com/watch?v=uweH8Qijuzw

(3) http://bit.ly/vuAwQ9

(4) http://temi.repubblica.it/espresso-open-politix/2011/12/02/pareggio-di-bilancio-in-costituzione-ok-unanime-dalla-camera/ + http://www.lavoce.info/dossier/pagina2977.html

(5) http://friendfeed.com/seideegiapulp/c93788d3/al-13–5-l-evasione-media-degli-italiani-nel-2010

(6) http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/20/banca-ditalia-il-45-della-ricchezza-in-mano-al-10-della-famiglia/82840/

(7) http://www.linkiesta.it/patrimoniale-immobili-tassa-ricchezza